
Quel giorno, una mattina di fine settimana, portai mia moglie in ospedale. Da diversi giorni si sentiva stordita, aveva il viso pallido e stava diventando sempre più magra. Glielo chiedevo più e più volte, ma lei rispondeva solo: “Deve essere per la mancanza di sonno”. Tuttavia, un senso di disagio cresceva dentro di me, così insistetti per portarla a fare un controllo.

Quella mattina l’ospedale era sovraffollato, la gente si accalcava per sbrigare le pratiche burocratiche. Mia moglie fece gli esami del sangue e delle urine. Quando lui entrò nella sala visite, io aspettai fuori. Il cuore mi batteva forte, non capivo perché fossi così nervoso quel giorno.
Circa dieci minuti dopo, il medico di turno – un uomo di mezza età dal volto sereno – uscì e mi chiamò. Mi svegliai di soprassalto, pensando che forse avevo bisogno di maggiori informazioni sulla storia clinica di mia moglie. Ma all’improvviso si avvicinò, abbassò la voce e mi sussurrò all’orecchio:
—”Signore… chiami immediatamente la polizia.”
Mi bloccai. Migliaia di domande mi esplosero nella testa. Chiamare la polizia? Significava che non si trattava solo di una malattia? Balbettai:
“Dottore… cosa sta succedendo?”
Il suo sguardo, serio e intenso, mi trafisse:
“Stai calmo. Sua moglie ora è al sicuro, ma i risultati degli esami e alcuni segni sul suo corpo ci fanno sospettare… che tu sia vittima di violenza intenzionale da molto tempo. Questa è una questione legale. Non possiamo lasciarla uscire prima dell’arrivo della polizia”.
Sentivo le gambe cedere. Il cuore mi doleva e la mente era nel caos. Vittima? Come poteva succedere tutto questo senza che me ne accorgessi?
Il medico mi mise una mano sulla spalla e parlò a bassa voce:
“Lei è suo marito, ma per proteggerla deve mantenere la calma. Non dirgli niente ancora. Abbiamo bisogno di tempo finché non arriveranno le autorità”.
Con mani tremanti chiamai la polizia. La mia voce si spezzò mentre spiegavo brevemente ciò che mi aveva detto il medico. L’operatore mi rassicurò:
“Stai calmo, la pattuglia arriverà immediatamente”.
Dieci minuti dopo, due agenti entrarono in ospedale. Parlarono con il medico e mi chiesero di aspettare in corridoio. Guardai la porta chiusa, sentendo il tempo fermarsi. Mille pensieri mi attraversarono la mente: chi avrebbe potuto fare del male a mia moglie? Come ho fatto a non accorgermene?
Finalmente gli agenti mi fecero entrare. Mia moglie era lì, pallida, con le lacrime agli occhi. Lui evitò di guardarmi. Il medico sospirò e spiegò dolcemente:
“Durante l’esame abbiamo scoperto alterazioni nel suo corpo che non corrispondono a una malattia comune. Sono il risultato di un lento avvelenamento con una sostanza nociva. Per questo gli ho chiesto di chiamare la polizia.”
Ero senza parole. La mente era vuota, solo un nodo in gola. Gli presi la mano, la mia tremante, e gli chiesi:
“Chi ti ha fatto questo?”
Scoppiò a piangere:
—“Non lo so per certo… Ma ultimamente, ogni volta che bevevo il bicchiere d’acqua lasciato in cucina, mi sentivo stordita e nauseata. Pensavo fosse stanchezza. Non volevo farti preoccupare… Non avrei mai immaginato…”
Le mie lacrime scorrevano incontrollabili. Provavo rabbia, impotenza, ma soprattutto un dolore profondo. La persona con cui condividevo la mia vita stava soffrendo e io non me ne ero accorta. La polizia se ne accorse, chiese di sequestrare alcuni oggetti della nostra casa come prova e iniziò le indagini.
Quel giorno ho capito che la vita di mia moglie era stata salvata grazie alla prontezza e alla responsabilità di un medico. Senza quel sussurro, forse non avrei mai scoperto la verità. Gli ho stretto la mano e gli ho detto:
“Non preoccuparti, finché sarò qui, non permetterò a nessuno di farti più del male”.
Nei giorni successivi, iniziò la cura disintossicante. Era molto debole, ma a poco a poco il suo sguardo riacquistò la luce. La polizia stava lavorando duramente per trovare il colpevole. Passai notti insonni, tra la preoccupazione e la speranza che presto tutto sarebbe venuto alla luce.
Una notte, mentre ero in piedi accanto al suo letto, mi prese la mano con le lacrime agli occhi:
“Grazie… Se non avessi insistito per portarmi qui, forse non sarei più qui”.
La abbracciai forte, trattenendo l’emozione:
“No, è stato il medico a salvarti. Ma ti prometto che non affronterai mai più nulla da sola”.
In quella stanza bianca, con il suono costante delle macchine che monitoravano il suo cuore, provavo una strana pace. Sapevo che c’erano ancora ostacoli davanti a me, ma ero anche fiducioso che finché fossimo stati insieme, niente avrebbe potuto abbatterci.
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