
La scrittura pesava più del dovuto mentre Boon Whitmore, in piedi nel cortile polveroso, contemplava il cottage che credeva suo. Le tegole erano grigie per il tempo, le finestre appannate da anni di abbandono e il portico di legno cedeva come la mascella di un vecchio segugio. Questo doveva essere il suo nuovo inizio: solitudine, libertà, la possibilità di forgiare qualcosa di suo in una terra dimenticata.
Ma la solitudine fu la prima promessa a essere infranta.
Tre donne erano in piedi sulla veranda. Si stagliavano nella penombra, con le spalle larghe e l’aria inflessibile, le loro sagome che oscuravano la foschia dorata del tramonto. Non avrebbero dovuto essere lì. Il commesso le aveva assicurato che il locale era vuoto.
La più alta si fece avanti. Aveva la pelle abbronzata dal sole, le braccia muscolose come se potesse abbattere un bue. Sorrise, ma il sorriso non raggiunse mai i suoi occhi.

“Devi essere il nuovo proprietario”, disse. La sua voce era calma, bassa, con una risonanza che fece rizzare i capelli sulla nuca a Boon.
I due che la affiancavano non parlavano, ma i loro sguardi erano penetranti: predatori che osservavano qualcosa che si era avvicinato troppo.
Boon sollevò l’atto, il cui sigillo brillava nella penombra. “Questa è ora la mia proprietà”, disse, con voce più ferma di quanto non si sentisse. “Ho i documenti per provarlo.”
Il sorriso della donna si allargò, mostrando troppi denti. “Oh, sappiamo chi sei, Boon Whitmore. Ti stavamo aspettando.”
Un brivido lo percorse. Se l’era aspettato? Il venditore aveva insistito sul fatto che l’affare fosse privato. Terre dimenticate, in attesa di qualcuno abbastanza coraggioso da reclamarle. Aveva speso i risparmi di una vita per quella promessa di solitudine, cavalcando per tre giorni attraverso il deserto per raggiungere quel posto. Ma ora, con quelle tre donne saldamente piantate sulla veranda, l’isolamento gli sembrava meno una libertà e più una trappola incombente su di lui.
La casa che guardava
Boon dormì male quella prima notte, se mai riuscì a dormire. Le donne non gli impedirono di entrare. Si limitarono a fare un passo indietro, come se fosse parte di un rituale già compiuto. All’interno, la fattoria odorava di resina di pino e terra vecchia. Granelli di polvere turbinavano nell’aria, ma l’arredamento sembrava vissuto: tazze ad asciugare vicino al lavandino, coperte piegate sulle sedie.
Non era abbandonato. Era occupato.
All’alba, trovò della legna fresca accatastata sul portico. Tagliata, pulita, pronta per un fuoco che non aveva acceso. Quando chiese chi l’avesse tagliata, la donna più alta alzò le spalle. “La casa provvede”, rispose.
Boon cercò di imporsi. Percorse la proprietà, ne controllò i confini, misurò il fienile con deliberata precisione. Ma ovunque andasse, le donne apparivano. Silenziose nei campi. Osservavano dalle porte. A volte insieme, a volte separate. Sempre a osservare.
Di notte, sognava radici che si attorcigliavano tra le assi del pavimento, avvolgendogli le caviglie e trascinandolo verso il basso. Si svegliava fradicio di sudore, con l’eco di voci femminili che gli sussurravano nelle orecchie.
L’accordo non detto
Il terzo giorno Boon li affrontò.
“Ho comprato questo terreno in modo leale e leale”, disse, lasciando l’atto di proprietà in mano sul tavolo della cucina, dove erano seduti a sorseggiare un tè scuro. “Non hai il diritto di stare qui.”
La più alta si sporse in avanti, con lo sguardo pesante come una pietra. “Pensi che la carta leghi la terra? Pensi che l’inchiostro governi il suolo e il sangue? La terra è più antica delle tue leggi, Boon Whitmore. Non è mai stata tua da comprare.”
La seconda donna, dai capelli neri come il fango del fiume, aggiunse: “Ogni uomo che arriva con un atto di valore lascia delle ossa. La terra conserva ciò che le è dovuto”.
Il terzo, pallido e silenzioso fino a quel momento, sussurrò: “E lei ti stava aspettando.”
La rabbia di Boon vacillò, sostituita dal disagio. “Aspettando me? Perché proprio me?”
“Perché sei venuto”, disse semplicemente quello più alto. “Basta così.”
Segni e ombre
I giorni si confondevano. Gli attrezzi che aveva lasciato svanivano, solo per riapparire dove non li aveva lasciati. L’acqua del pozzo aveva un leggero sapore di ferro, anche se l’aveva pulita. Gli uccelli volavano sopra i campi, ma non si posavano mai.
Ogni sera, le donne si riunivano sotto il portico, canticchiando canzoni che filtravano attraverso le assi. Il suono non era né una melodia né un canto, ma qualcosa di intermedio: una vibrazione che sembrava attraversare le pareti e raggiungere il petto di Boon.
Cercò di dirigersi verso il villaggio, ma la strada serpeggiava su se stessa. Quelle che avrebbero dovuto essere dieci miglia si trasformarono in un anello infinito. Al crepuscolo, tornò alla fattoria, con le tre donne che lo aspettavano come se sapessero che avrebbe fallito.
“Andarsene non è mai stata un’opzione”, ha detto l’uomo dalla pelle scura.
Il punto di rottura
La settima notte arrivò la tempesta. Tuoni squarciarono il cielo e la pioggia sferzò i campi. Boon barricò le porte, ma il vento ululava attraverso le fessure come se la casa stessa respirasse.
Nel cuore della notte, sentì dei passi sopra di lui, nonostante la fattoria non avesse un secondo piano. Salì le scale, con la lanterna che gli tremava in mano, e trovò una porta dove prima non ce n’era una.
Si apriva su una stanza stretta, piena di radici che serpeggiavano attraverso le pareti come vene. Al centro, una sedia era posta davanti a una finestra che si affacciava su
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