
Episodio 1Dall’esterno, il nostro matrimonio era perfetto. La gente ci invidiava. Il nostro matrimonio era elegante, semplice ma costoso, ospitato in una tranquilla villa fuori città. Lui era gentile, raffinato e ricco: Akin era il tipo di uomo che ogni donna sognava. E io? Ero la ragazza silenziosa che pensava di aver trovato l’oro. Ma dietro i sorrisi, qualcosa non andava…Eravamo sposati da quattro mesi e lui non mi aveva mai toccata. Nemmeno la prima notte di nozze.All’inizio, ho pensato che forse fosse solo rispettoso. “Voglio che costruiamo un’intimità emotiva prima di quella fisica”, aveva sussurrato, sfiorandomi la guancia con il dorso della mano. Arrossii, ingenua, speranzosa. Ma le settimane si trasformarono in mesi, e la sua distanza non cambiò mai. Niente baci. Nessuno sguardo indugiante. Nessuna passione. Solo brevi conversazioni, cene educate e lenzuola fredde.Ho cominciato a chiedermi se avessi fatto qualcosa di sbagliato.Viaggiava spesso, sempre per “riunioni urgenti” a Port Harcourt o “presentazioni del consiglio di amministrazione” ad Accra. Quando era a casa, se ne stava per conto suo, chiudendo sempre a chiave la terza stanza al piano di sopra, l’unica in cui mi era stato detto di non entrare mai. “È solo un deposito”, disse con un sorriso tirato. “Polvere e pericolosa”.Ma la curiosità è rumorosa quando nel tuo cuore vive il silenzio.Un piovoso sabato pomeriggio, mentre lui era via per un altro viaggio misterioso, decisi di pulire la casa da cima a fondo. Avevo bisogno di una distrazione dai miei pensieri vorticosi, dalla mia dolorosa solitudine e dalla voce crescente nella mia testa che mi chiedeva: “Perché mi ha sposato?”Mi fermai davanti alla stanza chiusa a chiave. Il cuore mi batteva forte. Sapevo che teneva le chiavi nel cassetto. Una volta lo lasciò aperto per un secondo quando entrai, e non lo dimenticai mai. Con mani tremanti, presi la chiave.La serratura scattò.La polvere volava mentre spingevo la porta per aprirla. La stanza era buia, fredda e senza finestre. A prima vista, sembrava vuota: solo scatole, vecchie tende e un pesante armadio contro la parete in fondo. Ma qualcosa non andava.L’armadio non era impolverato.Mi avvicinai e lo toccai.Si è mosso.C’era una corrente d’aria.Dietro… una porta.Le mie mani tremavano quando l’ho aperto e ciò che ho visto mi ha fatto saltare l’anima in gola.Un letto. Una donna.Vivo.Giaceva priva di sensi, o addormentata, attaccata a una specie di flebo. Un ventilatore ronzava sopra di lei e un piccolo monitor lampeggiava in verde. L’aria odorava di antisettico e paura. I miei piedi si bloccarono. I miei occhi scrutarono la stanza. Vestiti. Spazzola per capelli. Una foto sul muro. Lei e Akin. Sorridenti.Mi somigliava.Stessa altezza. Stesso tono della pelle. Stesso viso tranquillo.Rimasi senza fiato.E proprio in quel momento… i suoi occhi si aprirono.Sussurrò: “Ha sposato anche te?”Mi ha sposato senza toccarmi – Poi ho trovato una stanza nascosta con un’altra donnaEpisodio 2I suoi occhi erano spalancati ora: tormentati, vuoti e familiari. Il respiro mi si bloccò in gola mentre facevo un passo indietro, con il cuore che batteva forte. Era sveglia. Parlò. La sua voce era rotta come quella di qualcuno che non parlava da mesi… o anni. “Ha sposato anche te?” ripeté, più lentamente questa volta, gli occhi fissi nei miei come se stesse fissando uno specchio del suo passato.Non sapevo cosa dire. Le mie labbra si dischiusero, ma non uscì nulla.Il suo sguardo cadde sull’anello al mio dito. Poi, con tutta la forza che riuscì a raccogliere, cercò di mettersi a sedere. I tubi le tiravano il braccio. Un dolore acuto le attraversò il viso. “Ci porta sempre qui”, sussurrò. “Uno per uno.”Sbattei le palpebre. Noi?”Ce n’erano altri prima di me”, disse. “Forse… anche dopo di me. Che anno è?”Quasi soffocai con la risposta. “2025.”Le tremava la bocca. Chiuse gli occhi. “Sono in questa stanza dal 2020.”Avrei voluto scappare. Urlare. Chiamare qualcuno. Ma la casa era troppo silenziosa, l’aria troppo densa. La guardai – guardai davvero – e notai una sottile cicatrice sulla tempia, di quelle che non si formano per incidenti. La sua pelle era pallida, ma non malata. Non la stavano torturando. La stavano tenendo prigioniera.”Perché?” chiesi infine, con la voce tremante.Emise una risata secca, ma senza gioia. “Perché non ama. Colleziona.”La fissai.”Donne come noi. Silenziose. Morbide. Malleabili. Ci trova. Ci studia. Ci sposa. Poi… ci isola. Prima con il silenzio. Poi con i segreti. Poi con la paura.” Si guardò intorno nella stanza. “Questa è la sua galleria. La sua collezione privata di obbedienza.”Le ginocchia mi cedettero e mi sedetti sul pavimento freddo. Tutto aveva senso ora. Il matrimonio senza intimità. La porta chiusa a chiave. Gli strani viaggi. Gli occhi lontani. La calma agghiacciante.Infilò la mano sotto il cuscino accanto a lei e tirò fuori una pagina strappata: una vecchia fotografia. C’erano quattro donne. Tutte con indosso identici abiti blu navy. Tutte con lo stesso sguardo tormentato negli occhi. Una di loro era lei. Un’altra ero io.”L’ho trovato prima che mi addormentasse”, disse. “Non sei stata la prima. Ma forse… forse sarai l’ultima”.Fu allora che lo sentii.La porta d’ingresso.Passi.Pesanti, lenti, decisi.Era in casa.Balzai in piedi, con il cuore in gola. La donna, di cui ancora non sapevo il nome, mi afferrò il polso. “Non affrontarlo”, disse con urgenza. “Ha delle telecamere. Ci osserva. È così che sa quando gli abbiamo disobbedito”.Sussurrai: “Allora come faccio ad andarmene?”.Lei rispose: “Non lo fai. Non dalla porta d’ingresso”.Poi guardò verso la parete più lontana, dietro il suo letto. Lì, dietro la tenda, c’era uno stretto condotto di ventilazione. Appena abbastanza largo da permettermi di strisciare attraverso. Mi fece un debole cenno di assenso.Non ebbi tempo di pensare.Sentii i suoi passi sulle scale.Lasciai cadere le chiavi e corsi verso il condotto. Strisciai dentro. Il mio vestito si strappò. Il mio braccio raschiò contro il metallo arrugginito. Ma continuai ad andare. La sua voce echeggiò dietro di me. Calma. Sicura di sé.”Ti avevo detto di non aprire mai quella stanza, amore mio.”Poi lo sentii: un forte botto.Non sapevo se fosse la porta… o una pistola.Ma continuai a strisciare.Verso la luce.Verso la verità.Verso la libertà.Mi ha sposato senza toccarmi – Poi ho trovato una stanza nascosta con un’altra donnaEpisodio 3Il metallo mi lacerava le braccia mentre strisciavo attraverso il condotto di ventilazione, ogni movimento echeggiava dietro di me come un tuono. L’aria era densa di polvere, ragnatele mi sfioravano il viso, ma non mi fermai. Non mi voltai indietro. Non potevo. Dietro di me c’era l’uomo che pensavo di amare, ora rivelatosi qualcosa di completamente diverso. Un mostro con voti al posto delle catene.Il condotto portava a una piccola uscita nascosta dietro un gruppo di cespugli accanto al garage. Barcollai fuori alla luce del giorno, graffiata e senza fiato, le gambe tremanti. Il mio vestito era strappato, le mie mani sporche, ma ero libera.Per un attimo, rimasi lì ferma, a fissare la casa. La sua casa. La mia prigione. Da qualche parte al suo interno, quella donna – quella che era rimasta nascosta per cinque anni – era ancora sdraiata su quel letto, intrappolata.Non corsi.Andai al cancello, lo aprii e fermai una bicicletta. La mia voce si spezzò mentre davo l’indirizzo della stazione di polizia più vicina. Il motociclista mi guardò in modo strano, ma non fece domande. Bene. Non avevo più la forza di mentire.Alla stazione, consegnai loro le foto che avevo scattato. Raccontai tutto: il suo nome, la sua azienda, la stanza chiusa a chiave, le flebo, la cicatrice sulla testa della donna. All’inizio mi guardarono come se fossi pazza. Ma uno degli agenti riconobbe il nome. “Intendi il signor Makinwa? Quello con tutti quei progetti di beneficenza?””Sì”, dissi a denti stretti. “Lo stesso che tratta le donne come se fossero una proprietà.”Ci vollero ore. Furono fatte delle chiamate. Fu emesso un mandato. Al tramonto, cinque furgoni della polizia e una squadra di agenti fecero irruzione nella villa.La trovarono.Viva.Debole.Ed esattamente come l’avevo descritta.Trovarono anche altre due stanze, chiuse a chiave. Una conteneva medicinali. L’altra? Vuota, ma con un materasso, uno specchio e scarpe da donna: cinque paia. Misure diverse.Non si limitava a collezionare mogli.Si stava costruendo un mondo privato. Un harem silenzioso.Lo arrestarono nel suo studio. Calmo. Sorridente.Quando mi vide, disse dolcemente: “Hai infranto le regole”.Feci un passo avanti. “Hai spezzato delle vite.”Non oppose resistenza. Non discusse. Mi fissò come se stesse memorizzando il mio volto.Tre settimane dopo, la notizia arrivò. “Filantropo di spicco arrestato per un caso scioccante di prigionia umana.” Il mondo rimase sbalordito. Le sue organizzazioni benefiche fallirono. La sua famiglia scomparve. Gli sponsor si ritirarono. I processi iniziarono.Io testimoniai in tribunale.Lo stesso fece la donna della stanza nascosta: si chiamava Lydia. Aveva ventidue anni quando lo incontrò. Come me, pensava che fosse gentile. Sicuro.Ci sbagliavamo entrambi.Fu condannato all’ergastolo senza possibilità di libertà condizionale.Lydia ora vive in un centro di recupero per traumi. Vado a trovarla a volte. Non parliamo molto. Non ne abbiamo bisogno. Alcune ferite parlano nel silenzio.E io?Mi sono trasferita. Ho cambiato nome. Ho fondato un’organizzazione no-profit per le donne che scappano da relazioni violente. Non mi sono mai più sposata.Ma a volte, di notte, mi sveglio ancora ansimando, pensando di sentire una voce sussurrare nel buio:”Ti avevo detto di non aprire mai quella stanza…”E ogni volta, mi ripeto:l’ho fatto.E sono sopravvissuto.Fine.
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